Polistrumentista, poliglotta, polytropon: «dal multiforme ingegno», come l’Ulisse omerico. Oppure, senza volare troppo in alto, semplicemente uno che ha fatto suo il consiglio di un verso gucciniano: «Dobbiamo farne di mestieri, noi che viviamo della nostra fantasia». E che Marco Zappa sia una matassa di fili diversi lo si capisce anche solo entrando in casa sua, o meglio: salendo una scala costellata dalle copertine dei suoi album, superando con passo incerto le custodie di strumenti accatastate sul pianerottolo, ed entrando in un’anticamera ingombra di strumenti, con poster e striscioni da sembrare il palco di un minuscolo jazz club, per poi conquistare – senza soluzione di continuità – il comfort arioso di un bel salotto nel quale verrebbe voglia di passare una vita intera.
Una volta guadagnato il divano è quasi tutta in discesa, ché Zappa non è un malmostoso, anzi. Il problema, semmai, è che i fili da sdipanare sono tanti, prima di arrivare a capire come quel quasi settantenne è arrivato a sedersi lì, in questo mezzogiorno di fine ottobre, con le montagne del Sopraceneri dietro alla schiena, e seduta accanto sua moglie Elena, a scambiarsi sguardi il cui amore ha ancora la forza adolescenziale del primo innamoramento. (Lei sembra quasi sospesa accanto lui, volante, come in quel quadro di Chagall, ‘La passeggiata’). Ma procediamo con ordine. Marco Zappa nasce nel 1949. Il padre è insegnante di latino, greco e italiano; la madre di inglese e tedesco. Famiglia cattolica e borghese, come scrivevano i vecchi sociologi, di quella Bildungsbürgertum che un tempo godeva ancora di un certo incondizionato rispetto. Passa l’infanzia a Bellinzona, con la fortuna di frequentare «una scuola piuttosto antiscolastica» (non sfuggirà a qualcuno l’eco dell’«antipsichiatria» di Basaglia: poi ci arriviamo). «Non avevo maestri troppo legati al nozionismo che andava per la maggiore soprattutto prima del Sessantotto. Dalle aule potevamo correre subito sui prati, o sui pattini, o a fare le corse in bicicletta fino al Castello di Sasso Corbaro. Giocavamo a hockey e ai ‘bocett’. Avevamo le mani ru- gose, sporche di terra». La prima bicicletta è uno dei primi ricordi che saltano fuori, mentre mangiamo la torta perfetta preparata da Elena. «Era una bici verdino, con le gomme con la ‘spalla di lusso’ bianca. Mi ricordo ancora quando andammo a comprarla. Mi ricordo quell’odore di gomma, come se fosse ieri».
Le altre madeleines della sua infanzia, invece, sono legate a strumenti musicali (ma guarda un po’). Il pianoforte che sua madre – «appassionata organista, a casa mia alla domenica si ascoltava Bach» – gli fece studiare fin dai sette anni: «Ressi due anni soli. Un po’ mi dispiace, ma se non l’avessi mollato, mi sarei perso tutto il resto». L’armonica a bocca, che imparò a suonare da un monitore degli scout («quelli cattolici, mentre i nostri compagni socialisti e liberali andavano da quelli ‘neutri’»). Sull’armonica Marco impara «a orecchio» a sviluppare una tecnica tutta particolare, «per far la melodia da una parte e l’accompa- gnamento dall’altra». Per spiegarci la differenza, pesca un’armonica da un vecchio astuccio e inizia a soffiarci dentro. «Questo è quando fai solo la melodia»: un refrain li- neare, sottile. «E questo è quando fai la melodia e l’accompagnamento, con la lingua tappi i buchi della melodia e fai il ritmo»: il suono si apre, si gonfia, sboccia in una serie di sfumature da chiedersi come diavolo faceva, un bambino, a tirar fuori certi suoni da un pezzo di ferro. Marco nota lo stupore e tira fuori dal cilindro il coniglio perfetto: «Se volete ve la suono anche in blues»: stesso pezzo, ma l’ascoltatore è già in viaggio lungo la Cotton Belt. «Però guarda che per fare così devi tirare, invece che soffiare: dopo un mese ti tocca buttarla, si storcono le lamelle».
Altro strumento dei ricordi d’infanzia: la prima chitarra, comprata a Cattolica durante una villeggiatura al mare. «Ero andato a fare il bagno, avevo lasciato i soldi in cabina, e quando tornai me li avevano rubati. Pensavo ‘addio chitarra’, invece poi mia mamma me la comprò lo stesso». Una Musikalia, made in Catania, che conserva ancora sulla libreria del salotto, e ci fa vedere maneggiandola con affetto. Ci racconta un aneddoto. Qualche tempo fa è successo che gli artigiani della Musikalia, che a tutt’oggi continuano a produrre strumenti a corda in Sicilia, si sono accorti di una foto della sua vecchia chitarra su Facebook. L’hanno riconosciuta dalla speciale rosetta, che ricorda i solchi di un disco attorno alla buca della cassa armonica. «Mi hanno contattato per dirmi che sarebbero stati onorati di inserire sul loro sito una mia foto con il loro strumento!». Adesso Marco, per i suoi cinquant’anni di carriera, si sta facendo fare una nuova chitarra di legni pregiati da un liutaio ticinese («me la regala mia moglie», e fra i due parte un altro di quegli sguardi che valgono un disco). La rosetta l’ha fatta venire uguale identica da Catania, «proprio una dell’epoca della mia prima chitarra, e tra l’altro una delle uniche due sopravissute a un incendio della vecchia fabbrica, qual- che anno fa».
A 14 anni Marco si trasferisce da Bellinzona a Muralto: «Dalla neve alle palme, era come andare a Nizza.» È in quell’anno che una zia gli insegna i primi rudimenti di chitarra, ed è qui che, sempre negli scout, conosce il futuro bassista della sua band, Luciano Mordasini. Primo anno di liceo al Collegio Papio, dove insegna la madre. «Un’esperienza deleteria. Io poi suonavo già, avevo i capelli lunghi. Fui buttato fuori col tre in chimica. Meritato, sia chiaro». Sorte che lo accomuna ad un’altra ‘mela marcia’ del collegio, Oscar, suo futuro tastierista. «Gli morì la madre quell’anno. Andammo a suonare alla cena di classe e ci fu chi si scandalizzò, perché Oscar invece di portare il lutto suonava. Non avevano capito che era un modo per elaborare».
A Locarno, Marco fonda la sua prima band: «The Teenagers». «Fu il professore di italiano a comprarmi il primo amplificatore, un piccolo Dynacord. Feste del Ginnasio, da alternare con la corsa di orientamento e il canottaggio («una volta ai campionati svizzeri al Rotsee toccammo una boa e per poco non ci ribaltavamo»). Le prime ispirazioni vengono da lontano e da vicino: «Elvis e il Trio di Gandria». Come dire che la musica non ha confini, e che «non si capisce perché adesso si debba scegliere in modo esclusivo o quello che è tradizione, o quello che non lo è». Pensateci, quando lo ascoltate, perché è una cosa che ricorre. Marco è già un trascinatore (un accentratore, per i detrattori). «Al Millefiori, alle tre del pomeriggio era pieno di gente. Uno dei momenti più belli».
La cacciata dal Papio è quasi una benedizione: lo aspetta l’ambiente più aperto della Magistrale. («Sono passato dalla scuola di mia madre a quella di mio padre»). Sempre insieme all’Oscar. È lì che lo investe il Sessantotto, la mitica occupazione dell’Aula 20:
«Io non ero uno dei più radicali. Ma non è stato sempre facile. A casa avevo gli stessi genitori che avevo a scuola come prof. ed era un momento in cui alle assemblee studentesche i professori potevano entrare solo chiedendoci il permesso». Ma più che Mao e Che Guevara, gli interessano Freud e la psicanalisi: «Mi interessava soprattutto perché si parlava di sesso. Mi ricordo la lettura di ‘Sesso senza sensi di colpa’, di Albert Ellis. Io venivo da un ambiente cattolico... guarda come ride lei!» (altro incrocio di sguardi con la moglie, di quelli che ti risollevano la giornata).
Segue il Magistero a Milano, quella che adesso è la facoltà di Pedagogia. In quell’Università Cattolica dove si potrebbe pensare che certe rivoluzioni non sarebbero mai entrate, e invece ne fu una fucina (da lì uscì Mario Capanna, futuro padrino di Democrazia Proletaria). Anche se tutto sommato «il Sessantotto a Milano ci è arrivato più tardi che a Locarno». Poi Marco è anzitutto un figlio di insegnanti, e a Milano passa il tempo a studiare «fino a notte», dividendosi fra la facoltà e la Scuola Civica di Musica. Per concludere alla tenera età di 25 anni una tesi di dottorato sulle relazioni fra Freud e Jung. «Ho scelto il tema perché Jung era svizzero, in un certo senso era un vantaggio. Ma ho sempre preferito Freud, più realista, più scientifico. Jung la buttava sulla filosofia, era più moralista». Intanto il Sessantotto scuote anche la rigida tradizione psichiatrica, con una contestazione dei trattamenti più brutali che tiene il passo con quella della tradizione scolastica (‘L’istituzione negata’, di Franco Basaglia, è del 1969).
Poi certo, c’erano anche i film di Buñuel «al cinema d’essai di Via Torino», e i concerti degli Equipe ’84 e di altri, e i Beatles e Celentano come ulteriori numi tutelari. La vita fuor d’accademia, però, Marco la vive altrove. A Locarno, nei fine settimana, spartito fra la sua futura prima moglie e le prove della sua seconda band, gli Stanhope («il nome di un condottiero inglese; ci piaceva perché suonava bene»). E a Londra, frequentata già dagli ultimi anni di Magistrale, visitata col suo furgone Volkswagen: «Andai come au pair boy, alla frontiera fecero due occhi così: erano le ragazze che facevano certi mestieri. Stavo da una coppia di medici, pulivo casa, cucinavo, portavo in giro i figli che nel frattempo mi insegnavano l’inglese. Di sera andavo al Marquee Club a sentire lo Spencer Davis Group e gli Audience; mettevano già la chitarra classica e acustica insieme agli strumenti amplificati».
Chi fosse assetato di cliché sul rockettaro gonfio di droghe e whisky, però, rimarrà deluso: «A me piaceva il latte, e soprattutto la panna. Alla mattina arrivava il garzone del lattaio e lasciava davanti alla porta le bottiglie di vetro, come nei film di James Bond. Io ne approfittavo per mangiarmi la panna che si formava sopra al latte, fino a quando in famiglia dissero: ‘Bisognerà che reclamiamo col lattaio, questo latte è troppo scremato’». Ma era anche la Londra degli store di Marshall e Vox». Da lì riportava indietro i «pezzi» – amplificatori, pedali – che avrebbero costituito l’inizio della sua strumentazione. Dopo l’università, nel 1972, si sposa. E inizia a insegnare italiano al Ginnasio, su imbeccata del padre. Portando anche lì un approccio antinozionistico, ispirato dal Sessantotto. I suoi libri preferiti, da leggere e da insegnare, non sono però roba da contestatori: «‘I promessi sposi’, che non sono noiosi come li fanno sembrare, sono ironici, ricchi. E ‘Le confessioni di un italiano’, di Ippolito Nievo, che mi avevano colpito già al Ginnasio». (Piccolo spunto d’ascolto e di riflessione: uno che ti dice «sono sempre rimasto un sessantottino» e poi ti cita come maestri-ispiratori Manzoni e Nievo, o è uno che in realtà sessantottino non è mai stato, oppure ha capito che le rivoluzioni si nascondono dappertutto, basta saperle tirare fuori).
Arrivano i due figli, Daria e Mattia. Che non interrompono la sua storia musicale, semmai la arricchiscono. Li mette subito sugli archi, «che a me, cinicamente parlando, mancavano. Lo dico ironicamente, eh... ma con un fondo di verità». E ancora: «Li ho portati a suonare con me che lui aveva nove anni, lei sei». Ci mostra un live allo Zytglogge di Berna, e spiega: «Il lato A è il primo tempo del concerto. Sul lato B, il secondo tempo, non c’è Daria: alle nove la mettevamo a dormire. Qualche malalingua mi accusava di sfruttarli, ma loro si divertivano un sacco ed è così che hanno superato la paura del palco e del pubblico». Che poi, non a caso, sono diventati i due musicisti classici di valore che conosciamo: violinista lei, violoncellista lui.
Poi arriva l’amore per un’altra donna, la fine del primo matrimonio. Gli inevitabili conflitti con i figli. «Allora ho anche capito meglio mio padre, che aveva divorziato da mia madre per un’altra. Avevo giurato a me stesso che non sarei mai diventato come lui, e invece... Così ho imparato che non devi mai giudicare. E mi sento in colpa per questo, come con mia madre». Divorziata, si era messa a scoprire il mondo, dalla Norvegia all’India: «Portava a casa foto e cartoline e ne faceva degli album. Ma per chi li fai, gli album? Per mostrarli a qualcuno. Invece io non li ho mai guardati, la trattavo quasi con sufficienza. Adesso mi incolpo per non averli capiti abbastanza, i miei genitori. Ma sono sensi di colpa che ti fai dopo, con l’età». (La canzone ‘CassDiBanan’ spiega bene questa storia). Gli stessi sensi di colpa che rischiano di inchiodarti a una relazione: «ma alla fine non puoi restare dalla parte del senso di colpa, il passo è obbligatorio». Tutte esperienze che sono vasi comunicanti con la sua musica. Già a partire dai primi album di progressive rock, stampati da Emi, e cantati in inglese. Ma le esigenze espressive di Marco gli impongono presto di passare all’italiano e a una musica più intima, a costo di perdere l’etichetta. «Ho scelto di abbandonare il rock e gli strumenti elettrici per potere suonare nei teatri e nei locali più piccoli. Certa musica la puoi fare solo nei festival, negli stadi – e lui è stato a Nyon, Montreux, San Gallo e via dicendo –, io invece avevo bisogno di quei luoghi dove un cantautore può stare vicino al suo pubblico, parlargli direttamente, capire se la cosa funziona, se ‘arriva’ o no». Se parlassimo di ‘rifiuto delle logiche commerciali’, il lettore sbadiglierebbe e penserebbe ‘eccolo lì, un altro presuntuoso’. Ma il vero senso della scelta, non sempre compreso, è nella necessità di un contatto umano: «All’inizio mi hanno spesso rinfacciato testi troppo semplici, superficiali. È che molte volte parto da storie semplici, ma sono pretesti per parlare di problemi anche molto complessi, storie dell’inconscio. Le mie sono ‘canzoni teatrali’, richiedono un contesto condiviso col pubblico per essere più comprensibili e permettere di cogliere quei rimandi. Non ho mai fatto dischi «discografici». Anche le parole le usa così, per aprire squarci e gettare ponti, anche se a volte possono servire a tutto il contrario: «Ho scritto ‘Parole’ nel 1995 dopo una litigata atroce, a volte le parole le usi per distruggere, non per comunicare». ‘Parliamoci di più’ è la risposta a quell’andazzo, e il titolo del suo ultimo concept album, ‘PuntEBarrier’, riassume bene l’idea.
Già, le parole: Marco nelle sue canzoni le canta in tante lingue diverse e con tanti strumenti diversi. Si passa da inglese e italiano allo schwizerdütsch, dal liuto albanese al bouzouki greco. C’è anche il dialetto ticinese, ma «non perché fa tendenza. Scelgo la lingua in base a ciò che racconto, al tema che tratto. Se canto ‘LaDonaDalFradelon’, una storia ticinese, allora lo faccio in dialetto. E così se una canzone nasce quando sono in Albania o in Grecia, le metto il loro vestito e la suono con i loro strumenti tradizionali. La lingua è solo uno dei ‘colori’ che ho a disposizione, uno strumento come gli altri. E quando uso il dialetto lo faccio per un’esigenza espressiva, non per moda o nostalgia».
La stai buttando in politica? «Boh, io non faccio politica partitica. Poi è chiaro che mi chiedo perché uno che viene qua con una maglietta e un paio di jeans viene trattato come un criminale, come quel poveretto che entrò a Chiasso dentro una valigia, e uno che invece nella valigia ci mette un mucchio di soldi si trova davanti un tappeto rosso. Non ci vuole molto a capire da che parte sto: ma non lotto contro nessuno. È una questione di cercare di guardare le cose con quella che per me è umanità». Ma, come sempre, «cercando di non giudicare». Quanto all’evoluzione del suo stile musicale, ci vorrebbe un libro intero per parlarne. Dal rock «come sonorità» al rock «come spirito», passando per strumenti etnici e poco conosciuti come il sitar, flirtando con il gusto ironico dei Liedermacher d’oltre Gottardo. Di sperimentazioni anche spiazzanti, per esempio con la tecnologia, Marco ne ha fatte: «Ho tentato di abbinare le batterie elettroniche con gli strumenti acustici, usando il midi, come in ‘Frontiere’. Adesso non lo rifarei: mi è andata in tilt l’elettronica durante un concerto, mi son quasi giocato la piazza di Berna. Il violinista si incazzò come una belva: ‘Fertig mit dieser Schiesserei, Maschinerei!’. Ma si impara sbagliando. Io voglio sempre rischiare, sperimentare». Al che Elena fa un sorriso ironico, tira fuori l’iPhone e ci fa vedere un video: Marco semisdraiato, esausto, che dice sardonico: «non voglio più rischiare». Come no.
Ultimo giro di domande, ultime leccornie di Elena: piccoli fichi caramellati e succo di frutti autunnali. La glicemia è alle stelle, ma teniamo duro. Perché, come dicevamo, vogliamo capire come c’è arrivato, questo intellettuale semi-hippie col codino bianco, gli occhialini da psicanalista e un orecchino da corsaro, su questo divano con la sua Elena. «In quel momento era capitato a me, di venire lasciato. Così ho capito cosa vuol dire stare dall’altra parte. Un male cane. Allora il mio amico batterista mi fa: ‘Vieni che andiamo a suonare un mese in Albania, ti tiri un po’ fuori». Il resto lo immaginate, ma lo spieghiamo meglio: Marco incontra Elena, insegnante di matematica. Si innamora. Scopre «una nuova forza» (che poi dà il titolo a un album di due anni fa). Porta Elena in Svizzera, anche se coi figli e la famiglia di lei è un bel casino: «All’inizio andò giù con una valigia di regali, padre e fratello non volevano nemmeno farla entrare in casa». ‘CiVuoleTempo’, si intitola un’altra sua canzone recente.
Sicché ci si trova qui, a poche settimane da un concerto al Lac in cui racconterà tutta questa storia, ma molto meglio, insieme ai suoi figli e a uno zoccolo duro di amici mu- sicisti. Una scaletta completamente nuova, ben diversa da quello che abbiamo sentito nei concerti recenti, e intitolata non a caso ‘Pagine d’amore’. Storie di incontri e scontri, famiglie smarrite e riunite, un ritessere continuamente in musica la propria esistenza. Dopo Ulisse, Penelope.